La recente intitolazione dei giardini di fronte al Bar Autostazione ai “Martiri delle Foibe” è il capolinea di un percorso sbagliato iniziato oltre un anno fa nella Sala del consiglio comunale con una mozione presentata da Fratelli d’Italia.
Non è sbagliato ricordare chi è stato vittima di violenza, soprattutto di quella diretta conseguenza delle scelte oppressive del fascismo nei territori oggi sloveni e croati che hanno riguardato cittadini originari di tutta le ex Jugoslavia.
Non è sbagliato approfondire pagine di storia anche quando vengono organizzati appositi convegni sulla “confine orientale” (3 dicembre 2022) e dei promotori della mozione approvata dal Consiglio comunale non si vede neppure l’ombra.
Non è sbagliato affrontare temi come le vittime della repressione jugoslava che ha caratterizzato gli anni tra il 1943 e il 1945, ma può essere sempre utile distinguere il significato della parola vittima e di quella martire, per scoprire che quella che più rappresenta la maggior parte degli italiani e dei collaborazionisti coinvolti è la prima.
Quindi, riassumendo e utilizzando un linguaggio semplice e comprensibile anche per coloro che non hanno o non vogliono avere strumenti per comprendere pagine di storia, è corretto ricordare e approfondire tutto quello che ha riguardato le dinamiche che hanno interessato il confine orientale e le popolazioni che abitavano e abitano quei territori per un periodo che vada oltre un biennio. Allargando l’orizzonte storico si scopre che non tutto avviene all’improvviso e senza delle ragioni, che l’odio non nasce mai casualmente e che la stessa legge che istituisce il Giorno del Ricordo parla di “complesse vicende del confine orientale”.
Chiarito questo concetto è utile evidenziare quali elementi di ambiguità e palesi errori emergono dalla vicenda coronata con la conquista toponomastica di alcuni giorni fa.
Il primo è la scelta di intitolare lo spazio adiacente al Monumento ai caduti di tutte le guerre ad un episodio specifico. Sarebbe stata sbagliata anche nel caso che la scelta fosse caduta sul XXV aprile, sui martiri della Resistenza o i caduti di Nassiriya o di Kindu. Possibile che tra i tanti spazi o giardini a disposizione a Sansepolcro non ce ne fosse uno più adatto?
Il secondo è che la zona dell’autostazione è una delle porte di ingresso della città di Sansepolcro, che non una città qualsiasi dato che ospita nel proprio cimitero quasi cinquecento persone di origine jugoslava morte a causa della violenza italiana. Una parte di queste è morta di stenti e malattia in un campo di internamento a pochi chilometri da Sansepolcro. Questo non significa che la nostra valle debba passare decenni e secoli a chiedere scusa e pentirsi, ma semplicemente che per scelte non imputabili agli odierni attori politici ci sono i fatti che hanno riguardato la nostra terra relativamente alle vicende del confine orientale. Con le dovute proporzioni sarebbe come se la cittadina polacca di Oświęcim, più nota con il nome tedesco di Auschwitz, dimenticasse improvvisamente di avere ospitato un campo di concentramento per concentrarsi sul fatto, veritiero, che numerosi cittadini tedeschi dopo la fine del conflitto furono espulsi dalle regioni occidentali della Polonia. Non ci risulta che a Oświęcim sia mai saltata fuori un’idea del genere.
Il terzo aspetto è che si continua a dimenticare un lavoro di oltre cinquant’anni costruito dalla città di Sansepolcro con il mondo jugoslavo e con le nazioni che hanno preso il posto della Federazione balcanica. Fare un cammino condiviso con gli amici slavi su questioni come quella del ricordo di tutte le vittime, cosa fatta ad esempio da Gonars, cittadina friulana che ospita un sacrario come il nostro e molto più prossima al confine orientale rispetto a Sansepolcro, avrebbe dato un ulteriore valore ad un passo del genere.
Sansepolcro, non casualmente, ha scelto di dedicare la strada del proprio cimitero al Trattato di Osimo, proprio l’accordo diplomatico del 1975 che chiuse ogni contenzioso rimasto aperto tra Italia e Jugoslavia e finalizzato a migliorare i rapporti tra i due Stati. Semplicemente la “Città della cultura della pace” ha perso un’ennesima occasione di poter arrivare ad un risultato importante con la condivisione, preferendo una visione di parte.
Infine, cosa senza responsabilità locali, uno degli aspetti più paradossali del “Giorno del Ricordo” è la scelta di celebrarlo proprio il 10 febbraio, ovvero quando fu firmato il Trattato di Parigi. L’atto segnò l’accettazione da parte italiana della perdita di importanti territori a vantaggio di Jugoslavia, Francia, Albania e Grecia, oltre a danni di guerra di circa 360 milioni di dollari. Si può senza timore di smentita affermare che il 10 febbraio 1947 sia stato uno dei peggiori risultati del ventennio fascista. Anche ricordare i colpevoli delle conseguenze di quel 10 febbraio non è sbagliato!