Le conchiglie di acqua dolce del fiume Tevere utilizzate dai grandi maestri del Rinascimento per miscelare i colori

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Le conchiglie di acqua dolce del fiume Tevere utilizzate dai grandi maestri del Rinascimento per miscelare i colori prima di intingere il pennello e realizzare i capolavori e le opere d’arte che hanno consegnato alla storia. Vere e proprie tavolozze naturali, in particolare le “Unio” (molluschi provvisti di una conchiglia formata da due valve, come lo sono le cozze e le vongole che vivono infossate nei fanghi del fondo del fiume e, quindi, è più facile trovarle lungo i tratti ampi a lento scorrimento) delle quali oggi si conoscono varie specie. Fino alla seconda metà del 1700 gli antichi naturalisti credevano trattarsi di un’unica specie che abitava un po’ tutta l’Europa e che Il grande naturalista svedese Linneo denominò “Unio pictorum”.

Questo nome le fu dato proprio perché, da che se ne ha memoria,  i pittori usavano le loro valve per stemperare e mescolare i colori. “E’ bello immaginare di essere nella bottega di Giotto o di quelle di Raffaello, Luca Signorelli, del Perugino e tanti altri importanti pittori del Rinascimento  e vedere questi maestri mentre mettevano a punto i loro segreti. Vedere Raffaello che mescola terre colorate, colori vegetali ed animali per ottenere le sue meravigliose gradazioni di colore che poi hanno dato vita alle opere d’arte che tutto il mondo ci invidia, alcune delle quali custodite all’interno di Palazzo Vitelli alla Cannoniera sede della  Pinacoteca Comunale di Citta’ di Castello autentica culla del Rinascimento.

“Per i loro colori, infatti, usavano solo elementi naturali – precisa con un pizzico di orgoglio e soddisfazione, Gianluigi Bini, 73 anni, biologo fiorentino trapiantato da oltre 25 anni a Città di Castello, un’autorità in materia (Aubry, noto malacologo di fama mondiale gli ha dedicato una specie, “Cinguloterebra binii” per il grande contributo apportato alle scienze malacologiche) fondatore della più grande collezione privata di conchiglie da tutto il mondo, oltre 650mila pezzi catalogati, “Malakos”, da  anni uno dei maggiori poli scientifici punto di riferimento a livello internazionale.

“Ad esempio il rosso lo ottenevano dall’ocra, ma anche da insetti quali la Cocciniglia, ma anche da piante come la Robbia domestica che, sempre Linneo, la chiamò proprio “Rubia tinctorum” proprio per l’uso che ne veniva fatto. Il giallo, in massima parte, veniva ricavato dalla Camomilla dei tintori (“Anthemis tinctoria”), ma anche da certe gradazioni di ocra. Certe volte però, per ottenere dei colori molto particolari, i pittori ricorrevano a terre ed a minerali anche piuttosto rari e costosi.

Ad esempio per certi spunti di blu molto intensi usavano la polvere di lapislazzuli, mentre per il verde macinavano la malachite che mescolavano nelle valve di queste conchiglie, impastando le terre con il tuorlo d’uovo e l’olio di oliva e, magari per scurire un po’ il colore, aggiungevano qualche goccia di nero di seppia. Una volta che questi maestri erano riusciti ad ottenere il colore che volevano – prosegue Bini tenendo in mano proprio quella specie di conchiglia con dentro il colore da miscelare – lo disseccavamo dentro piccoli contenitori di terracotta, per poi riportarli liquidi e pastosi al punto giusto sempre stemperandoli dentro queste conchiglie. Il segreto dei loro colori veniva custodito gelosamente nelle loro botteghe e, certe volte, non li rivelavano neppure ai loro allievi; molti colori, infatti, portano il nome dei pittori che li crearono: il “Rosso Tiziano”, il “Giallo van Dick”, il “Verde Veronese” ed il “Blu di Klein” sono solo alcuni esempi.” Rinascimento, arte, territorio, fiumi e conchiglie di acqua dolce che fanno parte di un mosaico inedito e per certi aspetti suggestivo che in parte il Polo Scientifico e Museale Malakos custodisce e tramanda grazie ad un progetto di ampio respiro, “Tevere molluschi fantastici”, promosso dall’Istituto Superiore per la Ricerca Ambientale (ISPRA), in collaborazione con  l’Associazione Italiana Canoa Canadese (AICAN), ma che si avvale anche della collaborazione dell’Associazione “Citizen Science Italia ETS” (CSI) e dell’Associazione per la Didattica e per l’Ambiente. Questo è il secondo anno che il Museo Malakos è impegnato nel censimento della fauna a Molluschi del fiume. 

“Lo studio – precisa ancora il Professor Bini, affiancato dalla direttrice del museo,  Debora Nucci e  da Beatrice Santucci, ricercatrice associata – mira ad ottenere un quadro conoscitivo completo di questi fantastici animali acquatici e la loro distribuzione. Non tutti sanno infatti che, fra le tante meraviglie che la natura offre in Umbria, ci sono anche i molluschi che vivono nell’acqua dolce. Come in tutti i fiumi del mondo, anche il nostro Tevere possiede una ricca fauna di questi meravigliosi animali, ma da quello che emerge dalle prime ricerche, la situazione non è così ottimale come avremmo sperato. Oltre ad un certo depauperamento generale dovuto a vari fattori, attualmente la minaccia maggiore proviene dall’invasione di specie “aliene” proprie di altre parti del mondo e giunte da noi per la sconsiderata opera dell’uomo, causando gravi danni alla nostra fauna originaria.

Negli ultimi decenni però, oltre che ad osservare un costante deperimento di molte popolazioni di Molluschi per molti fiumi italiani, si è visualizzata una vera e propria minaccia per la sopravvivenza delle nostre specie originarie (specie autoctone) e questa minaccia è rappresentata dall’arrivo di specie non originarie delle nostre acque (specie alloctone), animali che comunemente definiamo “aliene”.  Ma se il nostro fiume è ormai invaso da due specie, per il territorio italiano la situazione è ben più grave, in quanto sono circa una ventina le specie aliene d’acqua dolce che stanno invadendo l’intero reticolo fluviale nazionale e tutti i laghi. In conclusione urge che nella legislazione italiana venga introdotta una specifica normativa, atta a far sì che la situazione non vada ulteriormente peggiorando, stabilendo precise regole d’importazione e tutela”, conclude il professor Gianluigi Bini, che  ha raccolto e studiato circa 15mila specie diverse, provenienti da ogni angolo del mondo, dal Polo Nord al Mare Adriatico.

Biologo, appassionato della natura, degli animali e di tutti gli esseri viventi che popolano la terra il professor Bini qualche volta ha superato situazioni a dir poco pericolose riuscendo però oggi a raccontarlo. “Fra deserti, foreste e oceani me ne sono successe diverse – racconta – ma fortunatamente mai così gravi da rischiare la vita”.

“Due volte però me la sono veramente ‘fatta addosso’ con gli squali. Quando studiavo Biologia Marina in Australia, nei pressi di una fantastica barriera corallina mi apparve un grosso tigre a meno di due metri: ho ancora impressa nella mente la sua possente dentatura bianca. Una paura tremenda. Un’altra volta eravamo all’interno di una gabbia, nella Baia di Melbourne, per testare dei repellenti per squali e arrivò una grossa femmina di squalo bianco che, per disgrazia, s’impigliò con la coda in una delle catene di discesa della gabbia. Era lunga più di quattro metri ed il suo peso doveva essere vicino ai 7-800 kg. Una tempesta di botte, morsi alla gabbia, ma per sua e nostra fortuna dalla nave appoggio sganciarono la catena e lo squalo scomparve in un attimo; feci in tempo a recuperare questo grosso dente che si era spaccato mordendo la gabbia”.

Nel frattempo dal comune il sindaco Luca Secondi e l’assessore alla Cultura, Michela Botteghi, definiscono “straordinario e appassionato” il lavoro e la ricerca continua che lo staff scientifico di Malakos con in testa la direttrice Debora Nucci, la ricercatrice, Beatrice Santucci con la supervisione del Professor Gianluigi Bini portano avanti da anni ponendo Città di Castello al centro del panorama internazionale in un settore in profondo mutamento. Scienza ed arte li vanno spesso a braccetto e si fondono in progetto di altissimo livello che contribuiscono anche alla promozione del nostro bellissimo territorio”.

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