“Francesco e Burri. Una povertà regale”: una Basilica gremita di gente e tanti applausi per il convegno che parla del Santo d’Assisi e dell’artista tifernate

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La Basilica Cattedrale di Città di Castello, che ospita in questi giorni il gigantesco Sacco – Scenografia per l’Avventura di un povero cristiano – Atto I di Alberto Burri, questa mattina (9 novembre 2024) era gremita di gente intervenuta al primo dei due grandi appuntamenti in programma in questo fine settimana per le celebrazioni degli 800 anni delle Stimmate di San Francesco d’Assisi: il convegno dal titolo “Francesco e Burri. Una povertà regale”.

Il convegno ha visto protagonisti in importanti interventi sul tema: mons. Luciano Paolucci Bedini, vescovo della diocesi di Città di Castello, mons. Nazzareno Marconi, presidente della Conferenza Episcopale Marchigiana, Bruno Corà, presidente della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, il Maestro Stefano Ragni, critico musicale e fra Giuseppe Magrino, maestro emerito della Cappella Musicale della Basilica Papale di San Francesco in Assisi, autore dell’Oratorio “La Stimmate”, coordinati da Claudio Tomassucci, presidente della Schola cantorum “Anton Maria Abbatini”.

“Lo spazio sacro della Cattedrale tifernate accoglie questo prezioso incontro che favorisce il confronto tra diversi linguaggio della cultura e le risonanze profonde che ogni anno animo è capace di ospitare davanti allo splendore della umana povertà”: con queste parole mons. Paolucci Bedini ha aperto il convegno, ricordando “la vicenda umana e spirituale di Francesco d’ Assisi, di cui i nostri territori sono stati testimoni oculari, grazie agli anniversari che si stanno celebrando, rappresenta una grande occasione, anche per l’arte, per scoprire quanto di quelle narrazioni ha ispirato lo sguardo e l’opera degli autori dei secoli seguenti. Così è anche di questo evento congiunto, che vede una originale e coraggiosa collaborazione tra la Fondazione Burri e la Diocesi di Città di Castello, nel tentativo di fare dialogare la musica e il canto con la pittura e l’arte dei materiali”.

“Nell’opera pittorica del Maestro Alberto Burri i cosiddetti “Sacchi” (1949-1950), realizzati con veri e propri resti di sacchi di juta consunti dall’uso , occupano un significativo periodo degli anni iniziali del suo lavoro, coincidenti con la ricostruzione del nostro Paese e della sua rinascita dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. – ha detto il presidente della Fondazione Burri , Bruno Corà – Burri ha adoperato, dunque, per creare una nuova pittura, un materiale di scarto, quello dei sacchi dismessi, rammendati con toppe e segnati da un ‘vissuto’ di lavoro e di trasporti di derrate, ‘povere’ anche esse. Il miracolo compiuto da Burri è stato quello di trasformare quelle misere pezze in opere d’arte , infondendo loro una qualità di elaborazione estetica attraverso la creazione di forme reali, dotate del loro colore materiale, fino ad ottenere una immagine pittorica inedita e sorprendente, un cero prodigio di equilibrio spaziale capace di stupire la nostra percezione, il nostro sentimento, il nostro pensiero. Ciò che rende possibile avvicinare Burri a Francesco, il ‘Santo poverello di Assisi’,- ha continuato Corà – è l’aver abbracciato un emblema di ‘povertà’, veicolo di semplicità e autenticità d’esperienza per una elevazione spirituale. Francesco abbandona abiti e vita sfarzosa di una sua originaria condizione di giovane uomo per abbracciare la povertà e la vita di rinuncia, di preghiera e di edificazione spirituale. Anche Burri sceglie di fare una vita di sacrificio e di dedizione all’arte attraverso un duro tirocinio, amare incomprensioni della sua opera, ma di totale fede in essa”.

“È stato osservato che i ‘Sacchi’ di Burri hanno aspetti che in parte si riscontrano nell’abito poverissimo indossato durante la sua Santa vita da Francesco, tutt’ora conservato presso la Basilica francescana di Assisi, inducendo l’ipotesi che Burri si sia ispirato ad esso. In realtà – ha spiegato Corà – si può più efficacemente osservare che quegli elementi di condiviso interesse per quel materiale ‘povero’ del sacco, sia da parte di Francesco sia di Burri, riguardano una inclinazione alla povertà quale virtù di semplicità che ben si addice a chi voglia ‘ripartire da zero’ in una volontà di radicalizzazione esistenziale tipica di chi intenda effettuare un profondo cambiamento di se stesso nel tracciare una storia nuova e diversa. Di quella ‘povertà’, che per essere stata scelta e non solo ‘subita’, si trasforma in ‘regale’ di spirito, credo si possa trovare traccia frequente nel costume etico ed estetico della cultura italiana ed europea. Oltre a Francesco, altre figure dedicatesi alla vita di rinuncia, di preghiera e di santità costellano il firmamento della cultura religiosa umbra e italiana; prima di Burri altri poeti, scrittori, pittori – come Giotto o il Maestro delle Vele – hanno esaltato nei dipinti la ‘povertà’. Ad Assisi oltre agli affreschi giotteschi si può ammirare quell’ Allegoria della povertà (Secolo XIV) del Maestro delle Vele che fa il paio con la grande decorazione di Hans Hombein il Giovane (1497-1543) Il trionfo della povertà, dipinto per i mercanti dello Steelyard. Ma dopo di loro, restando nella pittura e belle arti visive, Caravaggio, Segantini, Medardo Rosso, Pellizza da Volpedo e poi nel cinema, contemporanei a Burri, come Rossellini, De Sica, De Santis, rispettivamente in film come Accattone, documentano di una povertà vissuta in modo epico e poetico. In queste settimane, in Francia, una serie di importanti eventi espositivi e culturali celebrano un ultimo capitolo ammirevole dell’arte italiana influenzata da Burri, e comunque riconosciuta come erede della sua lezione, all’insegna della povertà. Con un rinnovamento del linguaggio, la cosiddetta “Arte povera” italiana annovera artisti di Roma, Torino, Bologna le cui opere occupano insieme a quelle di Burri i Musei di tutto il mondo”.

Perché Burri in Cattedrale? A questa domanda ha risposto mons. Nazzareno Marconi partendo dal legame tra Città di Castello e il Poverello d’Assisi. “La nostra Città è il primo centro significativo che si attraversa nel percorso fra la Verna ed Assisi. La Verna e le stimmate sono un tutt’uno. Se dunque Francesco stigmatizzato e Città di Castello sono un binomio bene giustificato, appare più difficile gettare un ponte fra Francesco e l’opera di Burri. Un primo chiaro aggancio è costituito da questa specifica opera oggi esposta, realizzata da Maestro come uno dei fondali teatrali per la realizzazione drammaturgica dell’opera di Ignazio Silone ‘L’avventura di un povero cristiano’. Da quella riduzione teatrale del 1969 a San Miniato Burri fu particolarmente coinvolto, tanto che realizzò non solo tre fondi che ne costituiscono la scenografia, ma anche i costumi, innovativi ed impattanti nei materiali e nei colori. D’altra parte, l’arte di Burri si sarebbe di nuovo incontrata e scontrata con la figura ingombrante del Poverello di Assisi nel 1975 quando una storica mostra del Maestro tifernate venne realizzata proprio dentro le sale del Sacro Convento del Assisi”.

Nell’Avventura di un povero cristiano, Silone racconta la parabola umana e spirituale di papà Celestino V, “Colui che fece per viltade il gran rifiuto” (Inferno, III canto) secondo Dante. “Silone – ha spiegato mons. Marconi – ne riscatta l’immagine di uomo tutt’altro che vile, definendolo un eremita coraggioso, ‘un cristiano davvero povero’ della fine del 1200, profondamente trapassato, oserei dire ferito, stigmatizzato, da un desiderio di santità e di povertà che proprio San Francesco all’inizio di quel secolo aveva acceso nella Chiesa del tempo. Questi temi di lacerazione furono di fatto i temi che Burri visse nel periodo di prigionia durante la guerra nel campo di Hereford, in Texas. Già altre volte, parlando del Maestro ho avuto modo di sottolineare quanto il suo intervento artistico sui materiali fosse legato alla sua esperienza tragica.

Guerra che visse dalla particolare angolazione dell’ospedale da campo. Burri, giovane medico militare, visse la guerra soprattutto nell’immagine delle tremende lacerazioni che dilaniavano i corpi umani e che egli si sforzava di curare sommariamente. I suoi interventi sui sacchi – ha continuato mons. Marconi – evidenti anche in quest’opera che viene esposta in Duomo, ricordano queste ferite e i punti di sommaria sutura chirurgica che potevano essere effettuati in un ospedale da campo. Gli strappi nei Sacchi, le bruciature nelle Plastiche così evocatrici delle ustioni da scoppio, le varie forme di taglio di una materia che evoca il biancone delle ossa nei Cretti: tutto richiama l’esperienza primigenia in cui Burri, buttato nella tragedia dell’esistenza umana come storia di violenza, ma anche di misericordia e di cura, rimase profondamente segnato. L’arte di Burri non è luminosa se chi la guarda non si lascia ferire a sua volta, se si ferma solo alla superficie, se non lascia che il mistero del vivere ci trapassi e trafigga. Burri racconta una storia di materiali poveri, feriti, lacerati dall’interno, perché possa uscire una ricchezza di vita che deborda”.

Domani, domenica 10 novembre alle ore 17 la Basilica Cattedrale ospiterà il Concerto in onore dei Santi Patroni Florido e Amanzio, “Le Stimmate”, oratorio per soli, coro e orchestra composto, nel 1997, da fra Giuseppe Magrino Ofm Conv ed eseguito, per la prima volta, dalla Schola cantorum “Anton Maria Abbatini” e dalla Oida – Orchestra instabile di Arezzo. L’opera si presenta come una composizione unitaria che scorre fluida in un profondo e continuo dialogo interiore di Francesco, che sul monte della Verna, in profonda meditazione, chiede a Dio di provare le stesse sofferenze di Cristo Crocifisso. Dirigerà il Maestro Alessandro Bianconi, direttore dalla Schola cantorum “Anton Maria Abbatini”.

Ricordiamo che il Sacco di Burri sarà visibile nella Basilica Cattedrale di Città di Castello fino a domenica 10 novembre, dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19.

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